U carusiaddru

In fondo era soltanto una gumbula con il tappo di terracotta, e senza manici. Se non fosse per quella lesione proprio sotto il collo dell’imbocco, ti poteva anche venire il sospetto che per utilizzarla dovevi tagliare il tappo… forse l’avevano fatta in quel modo per preservare l’aroma dell’acqua quando poi si sarebbe riempita. Era invece il primo contatto con il concetto di deposito bancario in un mondo in cui le banche erano soltanto un miraggio o una maledizione. Semmai il problema vero non era quindi, il che cos’era, che quello lo imparavamo già quando ancora non sapevamo neanche chiamarlo, ma perché nella costa Jonica assumesse quella forma piuttosto che quella più diffusa del porcellino. Forse perché in un mondo in cui anche l’acqua era un lusso, il contenitore dell’acqua si adattava meglio al concetto di ricchezza che non un semplice maiale. E quanti sistemi escogitati per far uscire da quella feritoia le dieci lire per le figurine o per il gelato, e quante possibili spiegazioni elaborate per giustificare l’ammanco quando finalmente si sarebbe rotto l’involucro. Perché la mamma sapeva sempre quanto ci doveva essere… non sapeva molto spesso leggere e scrivere… non sapeva la tabellina, ma i conti li sapeva fare… e soprattutto, le figurine e i gelati non erano mai desideri isolati. F allora imparavamo il concetto di ammanco e come coprire l’ammanco senza essere scoperti oppure si sperimentavano le punizioni e la vergogna che toccavano ai colpevoli di quello che si poteva a buon diritto denominare come furto con destrezza. L’unica cosa che non si riusciva proprio ad accomunare con l’oggetto in foto era il tasso di interesse: U carusiaddru chiri chi cci mintivi ti rindiva, macari ancuna cosa i menu, s’ancunu cci riusciva d’a mpilari l’acu o u ncinu, ma mai na lira i cchjiù.

Lascia un commento