Ad Aprili u tti scuviriri ed a a Maju u canciari saju!

Nel mese di aprile non ti devi scoprire e a maggio non devi cambiare abito!
Una delle tante massime che le nostre nonne utilizzavano per prevenire le intemperanze modaiole dei più giovani che ai primi calori primaverili tentavano di togliere gli abiti dell’inverno e soprattutto quelle fastidiosissime e pungenti maglie di lana. Così come fastidiosi erano il resto degli indumenti intimi come le calze di lana o i mutandoni “i pilusetta”. I malanni erano però in agguato e in quei tempi non c’era la mutua che copriva il mancato guadagno. Gli ammalati avevano un costo in tutti i sensi: il dottore, le medicine, ma soprattutto, gli ammalati non lavoravano e due braccia in meno, molto spesso erano determinanti per la stessa sopravvivenza. Non era quindi soltanto l’amore materno che faceva dire alle nostre nonne queste parole, ma le passate esperienze della brutta incidenza della malattia sul bilancio familiare, già di per sé magro. C’era poi una motivazione molto meno salutista ma non per questo meno importante. La mancanza di soldi aveva ridotto le stagioni della moda a due soltanto: estate e inverno. Eravamo ancora lontani dall’invenzione delle mezze stagioni che erano conosciute soltanto dai signori e da chi comunque se lo poteva permettere.
Per il contadino: o “cuvirutu” o “scuvirutu”. La lotta era comunque sempre impari a scapito delle nonne che nulla potevano contro il fastidio che quegli indumenti di lana grezza provocavano sulla pelle di chi, per la giovane età, non si era ancora indurito al punto di non sentirne l’irritazione. Se d’inverno, il freddo, dentro e fuori le case, aiutava a sopportarli, ai primi calori primaverili, toglierli diventava il primo pensiero.

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