IL MATERIALE E L'IMMAGINARIO NELLA CULTURA DEL MARCHESATO CROTONESE

Africa tra noi

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L’Africa è vicina
C’è stato un tempo in cui l’Africa non era poi così lontana dal Marchesato Crotonese, come molti, oggi, sarebbero indotti a pensare. E’ vero, c’era di mezzo il mare, e gli aerei non erano ancora utilizzati per viaggi di piacere come nel nostro tempo, ma la vicinanza di cui parliamo non è certo quella geografica, che quella, se non per le spinte tettoniche a cui siamo soggetti, non è cambiata in modo evidente. Ci riferiamo infatti ad una vicinanza di tipo sociale, economica e per molti versi antropologica che in molti casi non è ancora molto cambiata. Erano gli anni in cui le cose che ci avvicinavano all’Africa erano molte di più di quelle che ci distinguevano; se erano diverse la religione, l’appartenenza a una nazione occidentale, e alcune tecniche di produzione, non certamente molto diverse erano le condizioni di vita del popolo di San mauro.

Ci si potrebbe arrischiare nel trovare altre differenze nella lingua e nel colore della pelle ma sia il nostro dialetto, sia il nostro colorito olivastro, non renderebbero molto proficuo questo tentativo. E tutto questo mentre sotto il profilo dell’appartenenza politico amministrativa, eravamo a tutti gli effetti sudditi di uno stato che veniva annoverato tra le nazioni più progredite del mondo. E’ sempre il solito problema delle statistiche: sulla carta ognuno di noi ancora oggi dovrebbe mangiare pollo tutti i giorni, e sarebbe vero, se non fosse che nella pratica noi del pollo vediamo solo le ossa. Anche allora la situazione non era diversa: c’era chi, pochissimi, riusciva a godere di condizioni che potevano assomigliare a quelle di una società evoluta, ma per tutto il resto erano soltanto, e non solo metaforicamente, le ossa.
C’era però qualche elemento unificante di tutta la popolazione verso le condizioni africane: l’acqua! Infatti, se anche le famiglie più abbienti potevano usufruire di comodità neanche immaginabili per la maggioranza della popolazione, anche loro soffrivano la mancanza di acqua corrente nelle loro mastodontiche case. Potevano godere del fatto che non dovevano andare loro ad approvvigionarsi – c’era chi lo faceva per loro – ma l’utilizzo personale era sempre uguale, nelle baracche come nei castelli. Quasi come per una giustizia naturale, il liquido che da sempre gli uomini usavano per livellare le loro cose, diventava anche un livellante sociale tra loro.
La mancanza di acqua corrente nelle case e nelle baracche uniformava usi e consuetudini millenarie e condizionava la vita degli uomini in tutti i momenti della giornata. Il bagno era ancora un sostantivo che indicava un’azione e nessuno si sognava di attribuirgli il significato relativo a un ambiente di tutte le case moderne. Oggetti come a “gumbula” o “u varrili” erano di uso quotidiano come “u vacili” e “a giarra” occupando in tutte le dimore un posto di primo piano nelle dotazioni dotali delle giovani spose alla stessa stregua di tatti altri oggetti difficilmente rintracciabili nelle nostre case attuali. Ma accanto al concetto di approvvigionamento, la mancanza di acqua corrente, provocava anche un diverso concetto di smaltimento dello stesso liquido che quando non si trasformava in cibo aveva come unico terminale lo spiazzo davanti casa o “a timpa” e questo in tutti sensi, compreso i liquido smaltito dal nostro corpo. La depurazione dei liquidi fognari che tanto ci costa al giorno d’oggi, avveniva in modo naturale e alla luce del sole, o al massimo alle prime luci dell’alba. quando, aperte le finestre, le donne potevano finalmente far uscire dai mono locali obbligati, gli effluvi non proprio profumati delle nostre scorie. Erano pochissime le case che avevano una dotazione di servizi igienici come quella mostrata in fotografia e quasi sempre questo era possibile in campagna, per la presenza di ampi spazi dove collocare i pozzi neri necessari. Per tutti gli altri comuni mortali, la depurazione avveniva di notte “intr’u  pisciaturu” o altrimenti detto “zzu peppi”, e di giorno “a ra timpa” e per i più fortunati “intra a staddra”. Per i grandi di sesso maschile, ricchi e poveri, durante il giorno, era d’obbligo “u casalinu”, il salotto più scomodo e puzzolente che gli uomini avessero mai potuto concepire, sito in fondo a via Carlo Poerio, a ridosso del precipizio che guarda la vallata che ci separa da Cutro. Era pur sempre un salotto serale, frequentato di giorno da anziani e fanciulli; i grandi, i giovani, uomini e donne avevano a disposizione le campagne nelle quali si recavano prima del sorgere del sole. Qui, con le loro funzioni corporali, restituivano alla terra tutto quello che riuscivano a strappargli sotto forma di frutti e verdure. Non era infrequente, ancora negli anni 60, vedere nelle strade di San Mauro delle anziane donne che allargando le gambe, nascoste dalle gonne fino ai piedi, lasciavano una macchia di umido che risultava evidente una volta che si erano allontanate. Ma che “u casalinu” fosse un salotto, luogo d’incontro prettamente maschile, non c’è alcun dubbio: quante storie sono nate in questo posto che hanno segnato discorsi fatti poi in piazza e nelle “putighe”, quanti soprannomi che hanno contraddistinto intere famiglie potevano nascere solo in questo luogo così impudico e forzatamente pubblico. Dove altrimenti potevano nascere soprannomi come “cacatuastu,  cacara, pisciolinu, ecc. E che a nessuno venga in mente di ipotizzare dotazioni del tipo “trenta piani di morbidezza”…, un ciuffo d’erba, una foglia di fico, e per i più fortunati uno striminzito pezzo di un raro giornale, erano gli unici mezzi per provvedere alla bisogna.
E quello che oggi, a raccontarlo costa fatica, era vissuto come un fatto talmente normale da provocare sfottò e risate di scherno verso i malcapitati che raccontavano di servizi igienici nelle case e nelle piazze delle città. Erano tempi in cui il bidet era un attrezzo in cui lavare i piedi e la vasca da bagno era la tinozza in rame stagnato utilizzata anche per il lavaggio della biancheria: ”u quadaruni. Erano i tempi dell’acqua calda fatta nella pentola e mischiata con quella fredda “i du varrili”. Erano i tempi delle donne “soffione”: erano loro infatti a dover fungere da doccia nei confronti di tutti i membri della famiglia e per se stesse con “u vucali” dell’acqua sempre pronto a temperatura ambiente.
Erano sempre le donne che provvedevano alla razionalizzazione del prezioso liquido: erano loro che riutilizzavano l’acqua di cottura per lavare i piatti e la riutilizzavano poi, insieme ai pochi resti dello scarso cibo, come “scifata” per i maiali. Del resto erano ancora loro, insieme ai bambini, gli addetti principali all’approvvigionamento dalle fonti naturali e sapevano bene come un qualsiasi spreco si sarebbe tradotto in un ulteriore faticoso viaggio alla fonte. Un viaggio per sentieri scoscesi e ripidi con “a gumbula” al fianco e “ru varrili” sulla testa al quale si abituavano fin da piccole. Non a caso la prima cosa che veniva loro insegnata era utilizzare la testa come mezzo di trasporto, fossero esse tavolate di pane, sacchi o contenitori di tutti i tipi. In una società in cui la loro testa non poteva essere utilizzata per ragionare, era meglio trovargli comunque una funzione di utilità. La pioggia poi era una manna, specialmente d’estate, quando il muro davanti alle case si riempiva di tutti i contenitori disponibili, disposti in fila ordinata ad accogliere il prezioso liquido che scendeva dalle grondaie o dalle lamiere del tetto. Era l’acqua più ricercata per la “vucata” e per tutti quei servizi che non avevano a che fare col cibo e con il fisico. Ma l’acqua faceva presto a trasformarsi in maledizione quando la pioggia rendeva le strade paludi intraversabili di fango e paglia, aumentando la necessità dell’uso di quell’acqua che si era riusciti a recuperare.
Il viaggio alle fonti non cambiava mai, sempre le stesse trazza, sempre le stesse destinazioni: “Massu” e “Massu Firranti”. Erano queste le due fonti principali per l’approvvigionamento idrico del paese prima che venisse costruito l’acqedotto comunale. Rimasero però le fonti più frequentate anche dopo, soprattutto per tutti quegli usi diversi da quelli casalinghi e dalle lavandaie con grandi quantità di biancheria. Quella di “massu”, in particolare era organizzata con tre vasche di raccolta, coperte, e fornite di rubinetto per facilitare il riempimento dei recipienti e per preservare il prezioso liquido dalle maggiori fonti di inquinamento. Per gli animali era invece presente un abbeveratoio sui cui bordi erano inseriti dei lavatoi. Era questa, insieme con la “cipia” dello “scifo” la fonte più frequentata dalle lavandaie e dai bambini, soprattutto d’estate. Erano le piscine sostitutive di un mare che a dispetto della vicinanza geog
rafica, era lontanissimo da San mauro. Sono pochissimi i ragazzi che potevano vantarsi di aver fatto un bagno nel mare prima del servizio militare e ancora di meno le ragazze potevano dire di averlo soltanto visto. Il Tacina e le altre pozze utili per nuotare erano troppo lontane per bambini molto piccoli non ancora avvezzi a spostarsi troppo lontano dalle case e dal controllo degli adulti. E allora tutti a “massu” o allo “scifo” dove oltretutto si poteva anche “sgarari” facendo una scorpacciata di more di gelso e di altre frutta dell’orto. Le uniche controindicazioni erano i proprietari dei fondi che non erano molto contenti di questi assalti di “cavallette” umane, e le mamme che con racconti veri o inventati scoraggiavano queste immersioni. Le fonti, nella fantasia ingenua dei ragazzi, diventavano luoghi popolati da “scurzuni i d’acqua” grandi cumi “mpasturavacchi” e da tutti i serpenti di questo mondo; quando poi no ci si riusciva con la paura degli animali, si provava con racconti annegamenti, inverosimili per la scarsa profondità, ma deterrenti per i più paurosi. Molto più efficaci si dimostravano i racconti ancora più inverosimili che i più grandi, facendo a gara a chi al sparava più grossa, facevano ascoltare ai più piccoli, facendo diventare un bagno nel Tacina, un’ avventura degna di un film del cinema che tra l’altro non era ancora arrivato dalle nostre parti.
Poi finalmente costruirono l’acquedotto.
L’acqua arrivò a scorrere dai tubi di ferro del “biviari i da Madonna”, del “biviari i da Carrera”, o dai “canali i da Coddra e d’a Lustra. Era cambiato molto dai tempi di “Massu”, ma solo per l’uso ordinario, perché per le situazioni che richiedevano grandi quantità, le “cipie” rimanevano ancora un punto di riferimento. Siamo ormai negli anni 50 e la situazione sociale, grazie all’assegnazione delle quote di terra e agli aiuti del Piano Marshal, comincia a cambiare: insieme con l’acqua arriva anche la luce, e si cominciano a vedere le prime macchine. Per una ventina d’anni coesisteranno nel nostro paese due modelli completamente diversi caratterizzati dai sistemi di trasporto e dai mezzi di comunicazione: accanto a file interminabili di “ciucci”, sulle stesse strade ancora non asfaltate, cominciano a transitare le prime macchine e le prime moto; i primi improvvisati negozi di elettrodomestici smerciano un gran numero di radio e giradischi insieme a qualche televisione. In ogni casa arriva tubo dell’acqua corrente che porta l’acqua della Sila, e se non cambiano per adesso gli oggetti utili all’igiene personale, diventa sicuramente meno complicato lavarsi. Bisognerà aspettare le rimesse dei primi emigranti e il boom edilizio per cominciare a vedere nuove e vecchie case dotate di una stanza da bagno. “i biviari e le cipie” non cadono però in disuso assolvendo alla funzione di abbeveratoi per gli animali rimasti e da fonte di approvvigionamento per l’edilizia. Comincia un decennio di sviluppo imponente che trasforma il volto del nostro paese: intere zone intorno al nucleo originario di casette a schiera e di palazzi signorili, vengono trasformate in contenitori di casermoni di tre piani per trecento metri quadri. Un acquedotto progettato per portare l’acqua ad alcuni abbeveratoi e in poche case monolocali, si trova a far fronte a un incremento demografico e edilizio nemmeno minimamente prevedibile 10 anni prima.
Arriva l’era dei serbatoi e delle case galleggianti sull’acqua: la continua interruzione dell’erogazione dell’acqua dovuta a una scarsa quantità disponibile e a un deficit strutturale nella portata principale, costringono le amministrazioni comunali che si sono succedute negli ultimi trent’anni del secolo passato, a distribuire il prezioso liquido con turni che da intervalli di ore passano presto ai giorni e, in alcuni casi, a kafkiani turni di un mese.
Diventa così di moda dotare tutte le case di “artistici” serbatoi di alluminio, che piazzati per la maggior parte sopra i solai sprovvisti di tetto, danno al paesaggio, insieme con le antenne televisive, un carattere originale se non unico nel comprensorio. I costruttori di serbatoi si devono essere chiesti di questa inaspettata domanda di un prodotto che aveva nei contadini i massimi acquirenti. Accanto alla moda del “babbascione” sul solaio, per i fortunati costruttori di nuove case e per coloro che avevano un garage da scavare, si diffonde la moda dei serbatoi in cemento, vere e proprie piscine dentro casa della capienza di centinaia di litri. Tutto questo crea un indotto economico che ha fatto la fortuna di aziende locali e non e dell’ENEL in particolare. La necessità abnorme di autoclavi, motorini, e energia elettrica per farli funzionare ha portato il costo dell’acqua a livelli che il petrolio ci faceva la figura del parente povero. I “biviari” ritornano, insieme con le autobotti la fonte privilegiata di approvvigionamento e comincia a prendere piede la nuova professione del trasportatore d’acqua a domicilio. Trent’anni di scavi e ristrutturazioni di condotte centrali e periferiche non sortiscono nessun effetto se non quello di far diventare il paese un campo di scavi che di archeologico a solo le idee degli amministratori. Sono gli anni della caccia all’acquaiolo, il personaggio che assume a seconda dei casi il ruolo del salvatore della patria o dell’angelo vendicativo, a seconda che il turno ci favoriva o ci danneggiava. Sono gli anni del pellegrinaggio al serbatoio e delle interminabili discussioni sulla portata del liquido che arrivava…quando arrivava. Una carenza di portata, problema che avrebbe dovuto interessare solo ingegneri idraulici, diventava argomento di discussione tra la popolazione, che senza essersi laureata, diventava esperta gioco forza. Sono gli anni delle discussioni sugli evasori del canone, sugli abbeveratoi abusivi dell’orticello, sugli spreconi che lavavano le macchine, sulle perdite di tubi sempre vecchi rispetto al contingente. Non c’era candidato a sindaco di quegli anni che non abbia usato l’argomento acqua per tentare di farsi eleggere. Ma questa fonte di consenso pesava come una spada di Damocle sulla testa dell’eletto perché diventava anche l’argomento principale delle proteste delle opposizioni e dei cittadini. Il comune di Cutro non ci ringrazierà mai abbastanza per aver permesso, insieme con altri paesi colpiti dal morbo della carenza d’acqua, la nascita di località Steccato. E’ la necessità di lavarsi, prima che quella prettamente turistica, la molla principale dello spopolamento di San Mauro, oltre che in inverno, anche d’estate. Ci sono emigrati che programmano le loro sospirate ferie non in funzione della ricettività turistica ma in funzione del turno dell’acqua nella loro zona del paese; chi non lo fa rischia di arrivare a casa e non poter neanche andare al bagno. Persone che arrivano dopo un viaggio massacrante e invece di andarsi a riposare o incontrare i parenti, muniti di grandi bidoni di plastica, si recano immediatamente a rendere onore al “monumento alla sete” che da sempre è stato “u biviari i da madonna”. Sembra quasi una barzelletta blasfema, ma per trent’anni i due simboli di San mauro sono stati sempre vicino: “u biviar” e il Santuario. Verso la fine degli anni 80 la maledizione diventa solo un problema estivo, ma non per le soluzioni trovate, quanto per il fatto che una seconda ondata migratoria, questa volta definitiva, porta il paese a spopolarsi d’inverno come agli inizi degli anni 60. Le quantità d’acqua contenute mediamente nei serbatoi delle case la dicono lunga sul livello di igiene personale che gli abitanti hanno mantenuto in quegli anni. Come nel periodo precedente all’acquedotto, la parola d’ordine delle donne ridiventa quella del risparmio: si controlla il livello d’acqua nella vasca da bagno e nel lavabo, e si cronometra il tempo di
permanenza sotto la doccia.
Nella seconda metà degli anni 80 si decide comunque di eliminare uno dei due “luoghi di culto” e il vecchio “biviari i da Madonna” viene distrutto e ricostruito sotto forma di fontana pochi metri più lontano dal santuario, quasi a voler marcare la distanza tra questi due luoghi. Del resto la scomparsa di quasi tutti i ciucci rende inutile una vasca così capiente, anche perché i motocarri vanno a benzina, e comunque quello che serve non è la vasca ma i rubinetti. La stessa fine avevano già fatto gli altri “biviari” alla Carrera e a San Leonardo. Intanto i provvede a tentare di rianimare “Massu” e “Guiarci” che erano stati abbandonati sull’onda dell’euforia per l’acquedotto. Bisogna però arrivare alla fine degli anni novanta per arrivare a una soluzione definitiva del problema: per colmo d’ironia la soluzione viene dai pozzi sotto Scandale. Il scolo passato potrebbe quindi essere ricordato come il periodo del passaggio dall’acqua delle fonti, a quella dei pozzi. La costruzione di un nuovo serbatoio molto più alto e avveniristico – peccato che perda – e l’approvvigionamento ai pozzi, ha reso meno drammatica la situazione ma non tolto importanza alla nuova fontana del Soccorso e alle fontanine nel paese: ancora oggi come un secolo fa, l’acqua da bere e per cucinare, bisogna andare a prenderla li. Il problema, all’alba del 2000, sembrerebbe risolto, ma il condizionale è d’obbligo perché non ho ancora saputo di una massiccia rottamazione di serbatoi, motorini e autoclavi. La memoria storica della sete è più forte della fiducia nella tecnologia e passeranno molti anni prima che la gente decida di assegnare a qualche altro suppellettile il posto d’onore per tanti anno occupato dai serbatoi.
Una considerazione finale in tema di risparmio energetico: ae si desse la sicurezza dell’approvvigionamento costante, l’eliminazione di motorini e autoclavi darebbe un contributo notevole al risparmio energetico del nostro paese.
Le foto le potete vedere nell’album Storie d’acqua