A scirchijatu a terra…

Ha scirchijatu a terra… guardava la terra che calpestata e mormorava parole che avevano un suono e un senso atavico e familiare ma di un tempo troppo lontano per me, o forse soltanto segno di reminiscenze troppo in fretta messe in disparte. Parole come cornici contenenti stampe ingiallite e macchiate dal tempo ma ancora comprensibili solo a chi quei posti o quelle storie le ha viste e le ha vissute anche soltanto come inconsapevole spettatore… forse colpevolmente inconsapevole! “L’alivi stanu carricandu e serva l’acqua”…E la frase che, detta dopo un tempo interminabile rispetto alla prima, sembra senza senso, ma riporta a un tempo che ha le lancette dell’orologio  sintonizzate sulle necessità della terra prima che sulle nostre. Un orologio perpetuo che segue è non anticipa l’eterno ritorno dell’uguale…l’orologio del rito che rende ridicolo quello delle previsioni. La terra, la pianta, il frutto …. e poi l’uomo che finalmente osserva consapevole della sua caducità e della sua provvisorietà tutto quello che era veramente importante. Avrei voluto fare mille domande e a tutte avrei ricevuto una risposta ma non volevo rubare il tempo a che di tempo sente sempre di averne di meno del necessario… o forse mi rendevo conto che non sarebbe bastato il nostro tempo per dare risposte a tutte le domande. O, forse, la risposta era tutta nell’arsura che potevo vedere nei suoi occhi. Un’arsura di un’acqua che si beve solo con gli occhi e con la mente e la cui fonte è aperta solo il tempo che ci è concesso per catturarne il liquido con lo sguardo. “Chista è amarena” e “chisti su i lassani” … e con un gesto della mano le raccoglie per estirpare con l’altra la pianta rimasta… “Lassani e amareni” li dove i miei occhi da primitivo digitale vedevano solo piante e fiori da fotografare o da scansare: in fondo è tutto racchiuso qui il senso di estraneità che mi pervade quando vedo la loro appartenenza e capisco il senso della parola “coltivare” che non è solo lavoro ma è soprattutto “cura”. Cura della terra che ti cura|…Sarebbe bello come slogan ecologico per le nuove generazioni. Ha scirchijatu a terra… poi ci penso e mi viene da dire che “ha scirchijatu” la bestia uomo che avrebbe bisogno di tutta quella sapienza antica che sta scomparendo per sempre…. e “l’alivu carrica sempri i menu!”  E il passo si fa pesante, lo sguardo si volge verso il basso e tutta la malinconia traspare dal tremolio della voce che mormora soltanto un “jamunindi Cì”

40 anni di fotografia

40 anni di fotografie…Una seconda vita… una storia infinita di fotogrammi che scandiscono come un orologio di celluloide e di pixel ogni giorno di questi lunghi 40 anni. Ho nella testa una lanterna magica che gira continuamente illuminando lo schermo della memoria come un vecchio carosello diaporama degli anni 70. La lanterna gira continuamente facendo scorrere momenti e storie che solo io riesco a distinguere senza bisogno di rallentare il vortice che altri non potrebbero sopportare… e poi, come in una proiezione dia,  il telecomando si aziona per fermare la sequenza su quel fotogramma che mi riporta indietro nel tempo… In fondo la fotografia è una macchina temporale individuale dove la realtà storica si fa tutt’uno con il film impresso nella memoria. Ed in questi momenti che la macchina fotografica cessa di esistere lasciando il posto alla macchina virtuale presente nella mente del fotografo. Senza questa macchina mentale l’immagine fotografica sarebbe soltanto la riproduzione di un istante qualsiasi di un’esistenza qualsiasi,  in un mondo qualsiasi. Fotografare è un assicurarsi un ritorno… e un dipanare il filo d’Arianna che ti aiuta a ritrovare la strada percorsa nel labirinto ingannevole della memoria. Ogni fotografia è un viaggio a ritroso nel passato ma solo per il fotografo rappresenta una sosta della propria macchina del tempo. E senza saperlo il fotografo si dota di meccanismi che renderanno più agevoli questi viaggi anche se la motivazione immediata è quella di perfezionare la cattura dell’istante e nient’altro distrae da quest’obbiettivo. 40 anni di albe e tramonti, di appostamenti e colpi di fortuna, di volti e personaggi, di ricerca di luci e di ombre, di strade, terre e cose che non esistono più se non nel mio carosello. E allora questi 40 anni sono serviti a costruirmi quel palcoscenico dove io solo sono mago e spettatore, di uno spettacolo a cui ogni tanto decido di invitare qualcuno… all’inizio, infatti, questo era lo spettacolo della lanterna magica… e poi fu il cinema!

A mia nonna – Le donne di una volta

Nonna Rosa on Flickr.

Il vento non favoriva le pose volute ma mia nonna non era di certo ben disposta a porsi davanti all’obiettivo, soprattutto con l’abbigliamento da lavoro.
Non era certo un problema di trucco ne di acconciatura, che l’ordine tra i capelli era sempre il primo pensiero del mattino e l’unico cosmetico era la saponetta, rigorosamente “Camay”.
Era unvece un senso dell’ordine che era prima di tutto predisposizione a…
C’era un tempo per ogni cosa e la fotografia non era compresa nelle attività importanti… era un vezzo da lasciare a giovani donne in cerca di “zzitu” o da momenti di inattività… che del resto non erano neanche mentalmente programmabili.
Non si annoiava di certo mia nonna e la giornata aveva sempre meno ore delle necessarie ma, del resto, il vocabolo “stress” non era diventato ancora di moda, e il “tempo libero” non è mai entrato nel suo vocabolario.
Un corpo esile, asciutto, minuto, per nulla provato dalle tante stagioni che aveva avuto la ventura di sopportare, e che non lasciava trasparire neanche lontanamente l’eroica resistenza che vi era contenuta. Che si trattasse di salire ripidi e scoscesi sentieri di campagna con in testa il paniere carico di frutta oppure di passare giornate intere “aru crivu”, non lasciava trasparire stanchezza, che era un disonore dichiararsi “doma” agli occhi dei vicini e degli uomini di casa.
Convinzioni granitiche sulla direzione da seguire e sul fatto che il mondo girasse sempre nella stessa direzione, pronta a chiudere occhi e orecchie ai venti di novità apportatori di disgrazie e perdizioni, ma disponibile all’ascolto ogni volta che ci si affidava alla saggezza dei padri.
Ho avuto la fortuna di essere testimone dell’ultima generazione di donne della civiltà contadina, che se non erano il simbolo della felicità e dell’emancipazione, avevano sicuramente molte più cose da dire nel mondo della concretezza di quante oggi siamo disposti a riconoscere nel mondo dell’effimero.
Forse tutto è dovuto alla mia incipiente vecchiaia, ma non riesco più a trovare negli occhi che mi circondano le stesse scintille di vitalità che pure osservavo nei piccoli occhi di mia nonna.