A mio padre

Mio padre on Flickr.

Uno sguardo che non ammetteva repliche, ma che suppliva anche a inutili discussioni sulle cose da fare… del resto lui era il Capofamiglia e questo voleva ancora dire qualcosa in un mondo fondato sulla rigida osservanza delle gerarchie familiari così come lui le aveva imparate da suo padre… e suo padre da suo padre.
Uno sguardo che diceva molto sulla perdita di tempo che l’arte della fotografia rappresentava in un mondo ancora fondato sui muscoli delle braccia e sulla resistenza ai piegamenti della spina dorsale.
La fotografia era un passatempo dei giorni di festa quando il vestito nuovo riusciva a nascondere la stanchezza di una vita dedicata al lavoro, e i suoni e le luci riuscivano a mascherare le preoccupazioni per il domani che non mancavano mai davanti alla precarietà del futuro.
Uno sguardo che infondeva però sicurezza e che in ogni momento sembrava ripeterti la frase che avresti voluto ascoltare ma che detta con il linguaggio degli occhi assumeva un valore più profondo e rassicurante: “vai avanti… ci sono io vicino… non ti preoccupare… vai… puoi farcela se vuoi!”
Troppa poesia in forma di parole… aiuto concreto se dette con lo sguardo.
Ma il liguaggio degli occhi non si impara a scuola e solo il tempo o gli atteggiamenti conseguenti riuscivano a dirci se avevamo compreso il giusto senso del messaggio.
Ma quell‘“io ci sono” c’era sempre, e sarebbe utile ci fosse sempre, anche oggi, nel mondo della “comunicazione”!

Memoria

Memoria on Flickr.

Non parlavamo molto ultimamente….
Non avevamo molto da dirci, o forse non potevamo dirci molto.
Non avevamo mai parlato molto, non ne avevamo avvertito il bisogno: gli occhi e l’espressione del volto erano sempre stati il nostro linguaggio più vero. Ma ora, e sempre più spesso, i silenzi, lunghi, carichi di angoscia, grondanti di apprensione, si erano sostituiti per un tacito patto a tutte le forme di comunicazione tra noi.
Del resto, sapevamo entrambi che le parole sarebbero suonate false o non sincere per necessità… Quali parole avrebbero potuto essere consolatorie difronte a un esito imminente che era la negazione stessa della consolazione… Dopo ci sarebbe stato molto tempo a disposizione per le parole consolatorie, ma solo per uno di no due, solo per me… e questo lo sapevamo entrambi.
E mentre si toglieva le scarpe, quegli scarponi più pesanti per le incrostazioni che avevano accumulato intorno più che per i materiali con i quali erano costruite, quel rimprovero bonario deve essere suonato come una bestemmia alle orecchie di un credente, o, più semplicemente, come uno starter per uno sfogo troppo a lungo represso.
Del resto eravamo soli… gli unici due che sapevano con certezza, gli unici due che non potevano nemmeno sperare di sbagliarsi.
E solo la sua reazione mi aveva riflesso come in uno specchio spietato tutta l’assurdità o la stupidità del mio rimprovero.
Che senso poteva avere il mio consiglio di riposarsi a chi sapeva bene quale periodo di riposo stava per iniziare senza nessuna possibilità di rifiutarsi.
E le lacrime che per la seconda volta nella mia vita avevo visto solcare quelle guance scavate dal male e dalla fatica, più che le parole che smozzicate dal pudore faticavano a uscire dalla bocca e dal cuore, furono il segnale che tutte le ipocrisie erano finite.
Fu quasi una liberazione, un dividere il peso come tante volte avevamo fatto sulle strade infangate della nostra giovinezza: adesso potevamo aspettare insieme la vecchia signora, potevamo farci coraggio a vicenda senza le illusioni della speranza, amici finalmente come non lo eravamo mai stati.
Mi piace oggi riunire come a un convegno celebrativo gli unici muti testimoni di questo momento liberatorio ma anche di una vita degna di essere vissuta: un figlio, un paio di scarponi, una vanga e una cazzuola, anche queste orfane del manico come il figlio del padre e le scarpe del loro ultimo padrone.

Giorgio  su flickr mi lasciava il commento seguente:

Si può dire che due anfibi parlino? Ebbene, questi lo fanno.

E mi faceva venire in mente l’idea del “convegno” terapico:

Si Giorgio,
Parlano… ed è angosciante il non riuscire a tradurre in parole tutto quello che raccontano… per me, soprattutto, che ho fatto della parola un mestiere. Forse è per questo che morbosamente mi aggrappo alla macchina fotografica. In fondo uso la fotografia come terapia contro l’angoscia e la paura dell’oblio…

Grazie Giorgio per aver accettato di partecipare al “Convegno”.