Assolate giornate d’agosto

Piazza del Popolo
Piazza del popolo

Assolate giornate agosto. Sempre le stesse, la piazza sempre vuota con i sedili che si riempiono piano piano seguendo il criterio del fresco: “a matina a ru siattu i Liviu e ra sira a ra scala i Peppina i Petruzza”. E gli occupanti rimangono eternamente gli stessi dal punto di vista generazionale: niente giovani, loro vanno a stare al fresco sotto l’ombrellone. Non cambia niente nelle costanti di sempre, nemmeno i discorsi: “n’ annata cumi chissa ija mo è parecchjiu c’ u ra vìdjia! Le case, la forma delle macchine, particolari transitori e utili solo dal punto di vista della storia personale o locale; il resto no, Il resto è immutabile in un eterno ritorno o dell’ uguale che se la ride della nostra memoria individuale. Eppure tutto questo, per la prima volta nella storia, è destinato a finire insieme alla storia millenaria della cultura contadina: nella civiltà virtuale dei social network il fresco dei condizionatori prende il posto dei sedili in piazza e le generazioni si dividono nelle chat private, ma i discorsi no; i discorsi rimangono gli stessi: Un caldo così non si è mai visto.
E le pietre se la ridono della scarsa memoria degli uomini!

40 anni di fotografia

40 anni di fotografie…Una seconda vita… una storia infinita di fotogrammi che scandiscono come un orologio di celluloide e di pixel ogni giorno di questi lunghi 40 anni. Ho nella testa una lanterna magica che gira continuamente illuminando lo schermo della memoria come un vecchio carosello diaporama degli anni 70. La lanterna gira continuamente facendo scorrere momenti e storie che solo io riesco a distinguere senza bisogno di rallentare il vortice che altri non potrebbero sopportare… e poi, come in una proiezione dia,  il telecomando si aziona per fermare la sequenza su quel fotogramma che mi riporta indietro nel tempo… In fondo la fotografia è una macchina temporale individuale dove la realtà storica si fa tutt’uno con il film impresso nella memoria. Ed in questi momenti che la macchina fotografica cessa di esistere lasciando il posto alla macchina virtuale presente nella mente del fotografo. Senza questa macchina mentale l’immagine fotografica sarebbe soltanto la riproduzione di un istante qualsiasi di un’esistenza qualsiasi,  in un mondo qualsiasi. Fotografare è un assicurarsi un ritorno… e un dipanare il filo d’Arianna che ti aiuta a ritrovare la strada percorsa nel labirinto ingannevole della memoria. Ogni fotografia è un viaggio a ritroso nel passato ma solo per il fotografo rappresenta una sosta della propria macchina del tempo. E senza saperlo il fotografo si dota di meccanismi che renderanno più agevoli questi viaggi anche se la motivazione immediata è quella di perfezionare la cattura dell’istante e nient’altro distrae da quest’obbiettivo. 40 anni di albe e tramonti, di appostamenti e colpi di fortuna, di volti e personaggi, di ricerca di luci e di ombre, di strade, terre e cose che non esistono più se non nel mio carosello. E allora questi 40 anni sono serviti a costruirmi quel palcoscenico dove io solo sono mago e spettatore, di uno spettacolo a cui ogni tanto decido di invitare qualcuno… all’inizio, infatti, questo era lo spettacolo della lanterna magica… e poi fu il cinema!

I ficundiani

Mi sono divertito a seguire le mosse di “Turuzzu” mentre, con una perizia frutto di un’abitudine consolidata negli anni, si dedicava a “mundari nu piattu i ficundiani”. Con una videocamera avrei potuto riprendere tutti i movimenti, anche quelli di parti del corpo non direttamente interessate all’azione come le gambe, la testa e i piedi che, come per un riflesso condizionato, partecipavano armonicamente alla “mundatina”. Avrei potuto farlo… ma la fluidità delle immagini in movimento avrebbe relegato in secondo piano quei particolari che ritengo invece fondamentali per comprendere l’arte di “Mundari i ficundiani”.
Certo che se i fichidindia li avete conosciuti solo nelle cassette delle bancarelle di frutta e verdura, belle ripulite dalle spine, e magari anche con una spruzzata di brillantina sopra, allora voi non avete mai avuto la necessità di imparare a sbucciarle con la destrezza che quelle naturali, ricoperte di spine, richiedono. Ma non è soltanto destrezza: questa da sola non basta a garantire alle nostre mani il salvacondotto verso una serata tranquilla, non funestata dalla fastidiosissima sensazione di una o più spine invisibili conficcate nella pelle e nei posti più sensibili.

Chi non ha mai provato le spine di “ficundiana” non riuscirà mai a capire di quale tortura si sta parlando… le ore passate a cercare di individuarle prima, e i tentativi di toglierle senza spezzarle, sono degne delle migliori scene del cinema comico… per coloro che ne sono stati soltanto spettatori. E allora, alla destrezza e all’abitudine, è necessario abbinare dita callose e indurite dalla fatica dei campi, e in assenza di queste, di un robusto paio di guanti che, per quanto duri, non sono garantite dalle case costruttrici contro le spine di fichidindia. Tutto questo, ovviamente, è relativo solo all’operazione di “mundamiantu”, saltando quindi a piè pari l’operazione di raccolta che vi lascio immaginare, non essendo il mio teleobiettivo abbastanza potente dal garantirmi contro le spine volatili. “Turuzzu” le sbuccia per tutta la famiglia, e specialmente per le donne e i bambini. Lo fa con naturalezza, assolve un compito mai imposto da nessuno, ma frutto di una cultura contadina in cui ruoli vengono conquistati prima che assegnati; espressione di un potere di divisione ed assegnazione in un periodo in cui questo prima che un frutto era cibo.

I “ficundiani” che adesso si lasciano marcire sulle “palette”, venivano raccolte ad una una per essere mangiate come pranzo e come cena e per essere conservate “subba u chjiancatu” fino a Natale. E allora le spine diventavano un fastidioso ostacolo verso il piacere. “Turuzzu ndi munda” solo una quantità limitata, tanti quanto bastano per non trasformare il piacere in sofferenza: conosce benissimo le conseguenze di un abuso di questo frutto così succoso e traditore. “U mpittamiantu è in agguato e le urla di dolore dei ragazzi ingordi che ne avevano abusato sono ancora nelle orecchie di coloro che hanno più di cinquant’anni. Le mosse necessarie per “mundarle alla perfezione sono effettivamente meno di 12, sono 5 per la precisione, ma avrei scattato centinaia di fotografie a quelle mani per riuscire a coglierne non la perizia, ma ciò che rappresentano nella memoria di chi a mani come quelle deve tutto; e forse la mia non era soltanto curiosità fotografica ma il pagamento riconoscente di un debito contratto tanto, tanto tempo fa.