Disordine

C’era una volta un re, il cui nome nessuno poteva nominare, e neppure scrivere, e men che meno pensare.
A dispetto di ciò egli esisteva, egli viveva, egli faceva sentire la propria presenza, rendeva concreto ogni indizio del suo essere, fugava ogni dubbio sulla propria illusoria figura, imponeva nei confronti di sé stesso un crescente rispetto.
Ma le lapidi non lo ricordavano, i libri non lo descrivevano, le poesie non lo cantavano, gli affreschi non lo ritraevano, le statue non lo raffiguravano, gli elenchi non lo catalogavano, i giudici non lo chiamavano a testimonio, i saggi non lo presentavano a modello, i miseri non lo imploravano, le dottrine non lo contemplavano, le profezie non lo incontravano, le teorie non lo asserivano.
Tutti ne sapevano l’essenza, tutti non potevano negarne in alcun nodo l’essere e l’esistere, al di là di ogni altra congettura scettica o problematica. Ma non esisteva memoria – e per memoria si intende la funzione fisica, concreta, materiale del ricordare – di lui, della sua presenza, del suo agire, degli effetti da lui causati.
Alcuni studiosi, invero, intuendone ingenuamente la presenza, come di fronte a qualsivoglia altro fenomeno, avevano cercato di arrivare ad una sua rappresentazione, o meglio si erano avventurati sulla strada dell’ipotesi scientifica – che cosa sia scienza è un altro mistero – di un “se” a cui però non era mai potuto seguire un “allora”.
Altri avevano anche coniato il binomio “genio e sregolatezza”, ma nessuno capiva quale nesso ci fosse con il re, di cui nessuno parlava, di cui nessuno scriveva, di cui nessuno ritraeva l’immagine, di cui le lodi non erano contenute in nessun verso o in nessuna canzone.
Le cose, che tutti conoscono come concrete e della cui esistenza parrebbe a chiunque cosa assurda dubitare, anch’esse esistevano in funzione di lui, ma non ne riuscivano a dimostrare coerentemente e soprattutto razionalmente l’esistenza.
La razionalità – il dubbio sulla sua efficacia sempre più si accresceva – pareva portare alla conclusione che tutte le conclusioni si sarebbero confuse in un’unica conclusiva confusione.
Egli, a dispetto di tutto, come a tutti era noto, esisteva.
Il nome del re era Disordine.

Vittorio Marchis
Miti postindustriali

L’arpa di Pay Ya

Nel burrone di Lung Men tanto, tanto tempo fa c’era un albero di nome Kiri, un vero re della foresta. Un potente mago costruì con il legno di quest’albero un’arpa meravigliosa, il cui spirito non poteva essere domato nemmeno dal più grande dei musicisti.
Per molto tempo quest’arpa fu custodita insieme ai tesori dell’imperatore della Cina senza che nessuno, tra tutti coloro che avevano tentato, fosse riuscito ad estrarre una melodia dallo straordinario strumento. Infine arrivò Pai Ya, il più bravo di tutti gli artisti. Accarezzò l’arpa con mano leggera, quindi prese a pizzicare leggermente le corde dello strumento. Pai Ya cantò la natura e le stagioni, le alte vette delle montagne e le tumultuose acque dei fiumi e tutti i ricordi dell’albero si risvegliarono. Incantato il Signore del celeste Impero volle conoscere il segreto che aveva permesso a Pai Ya di avere ragione della resistenza dell’arpa. “Maestà – rispose il musicista alle domande dell’imperatore – coloro che mi hanno preceduto nel tentativo di suonare questo strumento hanno fallito perché non cantavano che essi stessi. Io, invece, ho lasciato che l’arpa scegliesse da sola la sua sinfonia e non sapevo bene se l’arpa fosse Pai Ya o Pai Ya fosse l’arpa”…..

Un sorriso come regalo

cicciugiuanniemicu

Cicciu, u zzu Micu e ru zzu Giuanni, un trio che si faceva un baffo dei comici che impazzavano sul tubo catodico… una comicità naturale, una capacità istintiva di rispondere ” aru cugghjuniamiantu” che poteva produrre sketch di ore dal nulla. “U siattu i d’ Annina i mastru Maida era il palcoscenico naturale della loro ironia ma anche della loro bonomia che, per le persone che sapevano ascoltare, era anche la parte migliore di loro. E Ciccio, che sa giocare, oltre che ascoltare, riusciva a essere la loro spalla migliore. Tutto questo è solo nella nostra memoria e la fotografia rimane l’unico modo per farlo diventare documento: queste fotografie rappresentano quello che io definisco il legame tra il materiale e l’immaginario del nostro patrimonio culturale.
La foto mi è stata concessa da Ciccio Cosco… che ovviamente ringrazio facendogli presente che, come al solito, io sono già andato!