U furgiaru – U gommista i na vota

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Il maniscalco (U Furgiaru) era l’artigiano che esercitava l’arte di ferrare gli equini. Il progresso ha inciso negativamente sulla sua opera e oggi la sua prestazione è molto limitata a causa delle nuove tecnologie, della comparsa di nuovi mezzi di trazione e in alcune zone interne è scomparsa del tutto. A San Mauro è rimasto soltanto Mastru Giuganni u furgiaru (Giovanni Lonetto) che continua a fornire questo servizio alle poche persone che ancora possiedono un asino o un cavallo.
La ferratura consiste nel ricoprire con un cerchio di ferro l’orlo dello zoccolo per impedire che il consumo dell’unghia sia maggiore delta sua crescita ed evitare, di conseguenza, gravi danni alle delicate parti interne dello zoccolo.
Inoltre, la ferratura dell’animale è di massima importanza per la sua buona conservazione in salute ed il maggiore rendimento fisico; serve anche per correggere certi difetti del piede a rendere possibile la deambulazione (il movimento alterno e ritmico dell’ animale).
Nei paesi dove esistono piccoli appezzamenti di terreno e dove il trattore non è in uso, l’aratura viene effettuata con l’aratro a vomere aggiogato ad un mulo o ad un asino e, in occasione della preparazione delta terra per la semina, il contadino ricorre al maniscalco per farsi ferrare il suo animale affinché gli zoccoli siano efficienti e permettano un buon rendimento fisico dell’animale oltre che, naturalmente per provvedere a “strairi” (affilare) il vomere stesso.
In passato, quando la scuola dell’obbligo era limitata alle classi elementari, i genitori mandavano alla bottega del “mastro” il proprio figlio che non mostrava inclinazione per lo studio.
L’apprendista maniscalco quasi sempre non veniva pagato per la sua collaborazione, tranne qualche regalia a Pasqua e a Natale come premio per la sua assiduità.
In realtà questo accadeva dopo molti anni di duro lavoro al mantice che alimentava la fucina. Solo in un secondo tempo poteva essere impiegato nell’azione della battitura del ferro sull’incudine che richiedeva precisione e forza. Difficilmente però si riusciva a superare questo stadio e passare a quello successivo della posatura del ferro sull’unghia.
Il ragazzo volenteroso faceva tesoro dell’arte del maestro a imparava a riconoscere i vari stadi di colorazione del ferro a contatto con la fiamma: rosso, rosso ciliegia, bianco. Solo allora il ferro poteva essere tolto dal fuoco e lavorato secondo le esigenze.
II ragazzo poco incline al lavoro veniva inevitabilmente allontanato e difficilmente trovava accoglienza altrove.
Le ore serali erano le ore di maggior afflusso verso le “forge” che si animavano come per incanto e diventavano il luogo di discussione privilegiato dei contadini. L’occasione era buon per parlare del lavoro nei campi o delle prestazioni degli animali legati in attesa della ferratura, ed era anche un momento di confronto che risultava molto utile in un momento successivo quando, alla fiera, si andava ad acquistare il nuovo animale.
Ricordo ancora l’odore caratteristico del fumo che si sprigionava nel contatto tra il ferro arroventato e l’unghia dell’animale, e il suono cadenzato e ritmico della battitura del ferro sull’incudine. Le tre prove successive, prima della apposizione definitiva del ferro, il lavoro di modellamento dell’unghia con gli attrezzi taglienti, la chiodatura finale con le “”tacce”“, erano cadenzati da odori e rumori caratteristici che avevano sempre la stessa scansione. Il rito della presa della zampa da parte del padrone, del sostegno di questa con il ginocchio, e i discorsi e i motti che questa operazione suscitavano nei presenti, dava a questo lavoro quel senso quasi liturgico che pure nell’antichità aveva avuto. Un senso ancora più accentuato dal potere assoluto dell’artigiano nelle decisioni sul lavoro: la sua parola non si poteva discutere e le modalità di ferratura restavano una sua esclusiva prerogativa. Si poteva cambiare “”u furgiaru”“, ma non si poteva discutere il suo modo di fare il mestiere.