Esserci sempre

Questa l’ho scattata nella stessa mattinata di dicembre in cui gli avevo fatto i ritratti. Avevamo finito di sfottere sul fatto cha Ciccio Cosco aveva voluto che gli facessi il ritratto con l’ impermeabile nuovo per mandarlo al figlio Gino. Mentre si allontanava ancora col sorriso sulle labbra scuoteva la testa come a dire quanto gli dispiacesse allontanarsi da quel modo di essere più che fa quel luogo. Ricordo che ho continuato a scattare foto nel tentativo di riprendere quel sorriso… senza successo purtroppo. Quando sono tornato a casa ho immediatamente percepito da uno degli scatti che avevo fotografato una mia sensazione più che uno stato reale. Presi dalla spensieratezza del momento non gli avevo chiesto niente del fatto che era stato male e in quell’incedere senza voltarsi mi era sembrato di scorgere tutto il non detto di quel nostro incontro. Ho visto in quel fotogramma più un addio che un arrivederci. Decisi allora che non l’avrei pubblicata tanto era dolorosa quella sensazione che il suo allontanarsi senza voltarsi fosse solo un tentativo di evitare di trasformare il sorriso in tristezza, fosse anche solo la tristezza di non sapere quando quel momento di allegria si sarebbe potuto ripetere. Tutti pensieri che mi attraversarono la mente accompagnati dalla speranza che questa fosse soltanto una mia reazione emotiva e non altro. Adesso, come un urlo liberatorio, riesco a vedere il suo volto sorridente mentre si allontana e questa fotografia acquista il suo senso originario del voler riprendere un attimo di gioia condivisa che vale per tutti i momenti che non ci saranno più. Un altro rettangolo di quella memoria collettiva che ci riporta piacevolmente al momento dell’esserci allontanando da noi la malinconica sensazione dell’esserci stati.

Ohi Tà, mi l'accatti a pistolicchia

Ricordo della festa
Ritornando alla festa devo proprio confessarti che mi manca il clima di attesa e di supposta sorpresa, il venditore di mele acerbe, u ritrattaru, le bancarelle ohi ta’ mi l’accatti a pistolicchia?, la riffa delle bambole (accetta o rifiuta la busta? e’ li che ho sentito ed imparato il significato del verbo rifiutare), i palloncini attaccati ari trumbiceddri petulanti ed irritanti: guagliu’ va ioca a n’atra parti, va.
I machinicchi i latta. I ciucci n’cazzuniti supra u bivieri ai margini delle fosse utilizzate per la calce. Il primo oro del grano e il terrore del fuoco. Il sole che martoria.
Aru ponti i Ciccioni, ai margini della strada, la sensuale prepotenza dei fiori, e l’odore selvatico e pungente dell’erba appena tagliata. Ci si scopre nuovi fra persone e luoghi consueti: uuh, e ca puru tu cca?
Tutto diventa altro ed ha un sapore di extraterrialita’. Da qualche casa si sente u grammoforu. E’ una tarantella. Alleluia! Ci si riappropria del paganesimo, nostro, ancestrale. A dispetto di una religione venuta da troppo lontano per essere nostra. Troppo cupa, funerea e penitenziale rispetto alla civilta’ della Tarantella: viva, selvatica, trasgressiva, allegra e liberatoria. Troppo mediorientale e integralista se confratata a padre Democrito.
Trasa, trasa, veni a piati nu muzzicuni, nu cafe’, nu biccherinu. Uh Pasqua’ u critieriu tua. Ca mo ci offri nu biccherinu aru guajjiuni. Ma e’ cosa?
Iddru vo carameeelli. No Signo’ grazie grazie, u mi piacianu. E mo uvi’ na cosa ti l’ha pijiari fijjici’. No grazie grazie. A mamma’ sta bona? I moooh cu ra viiu. C’iaiu passari du palazzu. Beh piiatilla ncuna cosa ped’amuri mia, un mu fari su dispiaciri…
Passano giovani impomatati, sguardo e camminata malandrini. Adulti intrappolati dintra a vestitura i fustagnu nuova di zecca. Sui colli delle giacche, leggermente arrocciulati, si puo’ indovinare tutta la stanchezza e la pazienza i mastru Peppi du iancu e di Tiresina da irupita. Scarpini assassini. Per i bambini piu’ alla moda occhiali da sole portati anche a notte fonda come per difendersi dalla illuminazione di Infante di Cutro che con la complicita’ dell’apparaturi sono i maggiori responsabili della magia della festa.
Per le signorinelle vestitino verginale, nastro fra i capelli e borsetta con all’interno lo specchino rotondo. Sono sorprese e sopraffatte dall’inconsueta liberta’ che pure aspettano da un anno. Marciano a gruppi tenendosi sottobraccio. Le gote< rosse per gli sguardi invitanti, per la speranza di una proposta, per la perfidia di poter dire mi l’ha mandatu a diri Turuzzu. Quali Turuzzu? Oih ma paraca tu u ru sai? Turuzzu i Crezza, ma ia ciaiu dittu i no. Ohi, madonna mia cum’e pateeeticu! Rosse le gote per l’ansia e l’mbarazzo del primo approccio, per le mute promesse per tutta la vita.
Una serie di carcasse e il quadro esce, Don Peppinu, Turuzzu e tuttu u comitatu, sudati, sbuffanti, soddisfatti. Si, insomma quelli che: Vieni cca, va ddra, fermati u quatru, allargativi, iamu c’amu finitu, sulu n’atra< vineddra, fatti dari nu pocu i d’acqua, dicci ara banda u d’attacca.
Come un esercito in disfatta, i musicanti, spompati e annoiati soffiano negli ottoni e lanciano sguardi velenosi che nessuno raccoglie. Il tamburino si inarica della vendetta sul primo bambino che si avventura nello schieramento.
Una mitraglitrice di colpi rimbombano nella sua testa, precisi, veloci, velenosi. O Maria come sei bella, sei l’amore e sei la stella… evviva Maria e chi la creo’.
Quanta invidia per quelli che riescono a cantare anche con voci stridenti! Quantu ha ricujiutu a Madonna? Quantu? Due miliuuuni?
Si, ma senza cuntari granu, gaddri, gaddrini, agnieddri, crapietti e cunijji. Nculu fra’, due miliuni! L’orgoglio carcagnutu e’ l’invidia dei scandalisi, dei santasuverinisi e dei rocchisani.
Il ritorno dei primissimi emigrati. Novelli Ulisse, accolti da eroi. Uh, Pe’, e quandu si arrivatu. Ah chi ti via, mi l’aviva dittu mujierta, ma u c’iaviva cridutu. Eh u paisi tira, e no? Fa friddu dra? E ru manciari cum’e’, buonu, cum’e’? L’aria ti cola, ti cola l’aria? Uh madonna mia du Suncursu. E cum’e’ Malanu cum’e’? E chi fai dra’, chi fai? E la l’e’ un’altra cosa, mica e’ come qua. Appena o giungiuto m’o trovato lavoro, no come qui. La diritti e doveri. Il vestito e la penna stilografica dicono il resto.
Dal basso lo squadro, l’ascolto confuso e affascinato: l’untore m’infetta per sempre. Mose’ senza popolo sta faticosamente attraversando l’acquitrinio immondo della paura millenaria. Intanto il predicatore, novello inquisitore consiglia, imbonisce, minaccia. Ripropone come valore l’ignoranza, la dipendenza e la paura, quintessenze del suo potere. Ma le parole scivolano senza traccia su pensieri impastati di carne e patate al forno, suppressati, vino e gazzose.
Tutta questa magia mi manca, ma il desiderio e’ solo onirico, bubbole di un’altra eta’.
Buona Festa

Nando

Nando

Nando on Flickr.

Dedicata a un amico

Ci sono persone che non smetterei mai di fotografare, se solo avessi la sfrontatezza di abusare della loro infinita pazienza, o della loro bonomia comprensiva.
Solo con loro ho la conferma di quanto poco superficiale sia l’immagine che il sensore mi restituisce, di quanto riesca a scavare una fotografia oltre le apparenze di cio che ricopre la nostra essenza.
La fotografia è un frammento.
Ma dentro quel frammento c’è tutto ciò che siamo stati e, forse… anche quello che saremo.