Considerazioni intorno al nostro dialetto

Considerazioni intorno al nostro dialetto da parte di una milanese vissuta nel nostro paese. (Cinzia)
Tutti gli abitanti del Marchesato parlano il dialetto, e in ogni paese un dialetto ben preciso e in qualche caso molto difficile, il dialetto è parte di loro, della loro vita del loro mondo, è quasi una difesa della propria intimità, è il segno di una appartenenza ad un gruppo ben definito. Dalla mia ricerca è emerso come il dialetto sia una espressione di vita, sia il volto di tutto un paese, come una sintesi in cui si assommano il suo passato, le sue tradizioni e la sua storia. Ogni parola, ogni espressione dialettale, infatti, non ha solo un significato suo proprio, ma anche una sua particolare forza espressiva, ha una sua vivacità, una coloritura particolare, difficile da tradurre per cui non è sempre agevole trovare nella lingua italiana il suo corrispettivo di uguale efficacia.

Fin da piccoli, i bambini fanno lunghe conversazioni tra coetanei conservando la freschezza del dialetto. Voglio riportare un episodio per meglio sottolineare il legame che c’è tra dialetto e linguaggio gestuale.

Ricordo di essermi trovata tra un gruppo di piccoli informatori che discutevano sulla possibilità dell’esistenza degli asini in paradiso e sulla loro eventuale capacità di poter tirare calci. Non nascondo la difficoltà di interpretare e tradurre , Raffaele, comprendente il mio disagio non tradusse in italiano, ma per rendere comprensibile il fatto si mise ad imitare il gesto dell’asino che scalcia. Capii ancora di più quanto il dialetto avesse un ruolo indiscutibile nella vita sia dei piccoli che dei grandi che risiedono ancora in Calabria.

Ho potuto notare, invece, che quando tornano gli emigrati, il dialetto tende a trasformarsi, quasi a perdere un poco della sua rudezza, quasi volesse “” cittadinizzarsi “”.

E questo, naturalmente, gli fa perdere anche qualcosa della sua purezza originale e non facilita certo gli eventuali interpreti.

Inoltre proprio perchè io ero “” forestiera “” capitava anche con le mie informatrici che si sono spesso espresse in italiano, o meglio in dialetto misto, cioè italianizzato, con il quale tentavano di adeguarsi a me. Ho usato il verbo “” tentare “” non certo per fare dell’ironia sul loro modo di esprimersi, ma in effetti il loro voler tradurre è risultato non molto diverso dallo sforzo di uno straniero che si esprime in una lingua diversa e conosciuta solo nelle sue linee essenziali.

Quando ormai le inchieste svolte mi avevano resa abbastanza esperta e mi avevano dato dimestichezza sia con i dialetti nei loro vari adattamenti, sia con la trascrizione fonetica, osavo chiedere ma solo con le informatrici con le quali avevo veramente instaurato un rapporto di amicizia, che mi parlassero in dialetto, e allora il dialogo diventava molto più colorito e più vivo.

Ora i giovani, nella maggior parte, in casa con i parenti e in paese con gli amici usano il dialetto, altrimenti preferiscono parlare in italiano. Purtroppo però un patrimonio di tradizioni e di espressioni di vita quali è il dialetto tende a scomparire e questa è una grave perdita; a mio parere un ruolo determinante lo dovrebbe giocare la scuola media inferiore inserendo nelle varie programmazioni curriculari un aspetto dedicato al recupero delle tradizioni. Ho già messo in evidenza le difficoltà che ho incontrato trovandomi a contatto con una parlata dialettale, che paragonavo ad una lingua straniera, ma voglio anche aggiungere che, col passare del tempo, diventandomi familiare mi è sembrata sempre più bella e a volte più espressiva, specialmente perchè ricca di sfumature. Conservo tra alcuni oggetti, per me carichi di valori affettivo, un quaderno sul quale i ragazzi della scuola media, per facilitare la comprensione della loro parlata dialettale negli ultimi dieci minuti delle ore di lezione mi <> i vari vocaboli facendomeli scrivere e facendomi esercitare nella pronuncia.

Si può notare come a S.Mauro il dialetto è il più melodioso, perchè le cadenze accentuate in fin di frase danno un ritmo cantilenato al discorso e di solito il dialetto lo si parla lentamente, le prime volte che sentivo la gente del luogo parlare avevo l’impressione che le persone stessero cantando dolci ninna nanne cantilenate. Il dialetto di Cutro, invece, è più duro, le parole vengono scandite ad una ad una con chiarezza e non solo senza cantilena, ma con tono che si direbbe leggermente aggressivo. Quando sentivo parlare le persone di Cutro, avevo l’impressione che fossero persone arrabbiate e che stessero sempre dando degli ordini, anche se poi le loro parole, tradotte, si rivelavono cariche di gentilezza. A Scandale il dialetto sembra più grossolano, più con la tendenza ad allungare sempre il suono vocalico, con una particolare apertura della bocca, vengono chiamati proprio perchè si sentono superiori agli altri e questa caratteristica la si può notare anche nella pronuncia dialettale. Più caratteristico, più chiuso, quindi più difficile dei dialetti, è quello parlato ad Isola, perchè viene pronunciato a labbra strette e con ritmo molto veloce, per cui sembra che gli isolani abbiano sempre premura, tanto dicono tutto “” di un fiato “”.

Tuttavia, in tutti i paesi, come ho già detto, pure nella diversità di alcuni particolari che li caratterizzano ad uno ad uno (come per es. l’accentazione delle parole) i dialetti hanno tutti un fondo comune.

Allegato a queste considerazioni un glossario molto parziale ma interessante che potete trovare cliccando qui

A rivoluzioni

Era da un bel pezzo che Ntoni avrebbe voluto tornare a casa, ma non osava decidersi. Un pò perchè in fondo il discorso lo interessava, ma anche perchè, in fondo, quelle ore della domenica mattina erano le uniche che si concedeva durante la settimana. Giginu, come il suo solito, stava tenendo banco; era sempre lui che teneva le fila del discorso, e non c’era verso di farlo star zitto, soprattutto quando l’argomento era quello della situazione dei contadini in questo lembo dimenticato della Calabria.
Lui aveva partecipato all’occupazione delle terre, aveva sfidato i carabinieri e i guardiani dei grandi proprietari, aveva conosciuto personalmente Di Vittorio e Fausto Gullo, non era un contadino qualsiasi come quelli che lo ascoltavano e che, manciapani a tradimiantu, avevano soltanto approfittato del sacrificio dei compagni per diventare proprietari.
Per la verità, Giginu si era trovato a diventare comunista e rivoluzionario suo malgrado. Che ne poteva sapere lui che quella mattina gli occupanti dei paesi vicini avevano deciso di occupare proprio il terreno dove lui era andato ad “espropriare” il suo sacco di olive per il vitto. Lui aveva scelto quel posto perchè di solito era il meno sorvegliato, essendo talmente fuori mano da essere dimenticato dai proprietari e dai guardiani.
Che ne poteva sapere lui che Peppi u Rocchisanu avrebbe scelto proprio quel posto per proporlo alla riunione che gli occupanti avevano fatto due sere prime a casa dello Sciancatu.
Quando quella mattina se li era trovati tutti intorno felici e contenti che anche uno di San Mauro aveva deciso di unirsi a loro per occupare il terreno vicino all’alivitu, non se l’era sentita di dire il vero motivo per cui si trovava in quel posto. A parte la delusione che avrebbe provocato tra quelle persone così entusiaste, c’era anche il pericolo che lo considerassero una spia con tutte le conseguenze del caso.
E poi, non era forse questa l’occasione che aspettava da una vita per dimostrare ai suoi compaesani di che pasta era veramente fatto Giginu Coraisima. Quale migliore occasione per dimostrare che la fame che portava scritta in fronte era solo il prodotto della sfortuna e non di mancanza di coraggio. Tutto il circondario avrebbe saputo che Giginu Coraisima aveva partecipato all’occupazione delle terre e il suo contributo era stato determinante per la riuscita dell’impresa e, cosa ancora più imprtante ai suoi occhi, era stato l’unico di San Mauro ad essere presente.
Ciò che più l’aveva convinto era stato però la costatazione che non c’erano ne militari e ne guardiani a contrastare l’impresa. La cosa si sarebbe risolta nella mattinata con il massimo del guadagno e il minimo delle perdite. 
E fù così che si era ritrovato con una zappa in mano intento a segnare il terreno che gli sarebbe toccato una volta finita “l’occupazione”.
Tutto quello che avvenne dopo, i Carabinieri da una parte e i guardiani dall’altra che li avevano circondati, i ferri ai polsi, le spinte per farlo salire sulla camionetta, le urla e le minacce che rintronavano nella caserma e nelle sue orecchie, lo sguardo luciferino del maresciallo che gli elncava i reati e le pene corrispondenti; tutto questo era un racconto che si era ingrandito ogni volta che lo ripeteva in piazza, e in ogni puntata si aggiungeva un personaggio che era intervenuto per difenderlo o per ringraziarlo della grande prova sostenuta. Così diventava normale che Di Vittorio si fosse recato personalmente in caserma per promettergli l’appoggio di tutti i compagni nella lotta per la sua liberazione, e non c’era niente di strano nel fatto che Fausto Gullo avesse lasciato in fretta e furia Roma per conoscere gli eroi di Serra Rossa e avesse voluto personalmente stringere la mano a quello che per primo era stato arrestato: Giginu Coraisima.
Del resto nessuno sapeva che erano stati trattenuti tutti soltanto per una sera e che avevano passato la settimana seguente nella sede della Camera del Lavoro di Crotone per evitare che altri atti sconsiderati facessero fallire la vera occupazione delle terre che sarebbe dovuta cominciare la settimana successiva.
E a nessuno sarebbe venuto in mente di raccontare della grande cazziata che avevano ricevuto dai veri organizzatori della protesta. C’era stato qualcuno che si era spinto a minacciarli di una sonora mazziata nel caso qualcosa fosse andato storto e qualcuno aveva anche riferito che Di Vittorio aveva manifestato la volontà di conoscere di persona quei grandi imbecilli che avevano compromesso il lavoro di anni.
Ma siccome tutto questo nessuno aveva interesse a raccontarlo fuori dalle mura  sindacali, Gigino stava tranquillo sulle possibili smentite alle sue epiche imprese e si permetteve il lusso di riscuotere ogni domenica l’unico guadagno di quella mattinata: il gusto di dire a tutti i suoi compaesani che era stato l’unico di San Mauro ad aver partecipato alla rivoluzione e come tale, doveva essere il più titolato a parlare di politica e situazione sociale.
Davanti a qualsiasi contestazione degli interlocutori la sua conclusione era sempre la stessa: “ia puazzu parrari picchì c’era, vua, u trenu i da rivoluzioni u ll’ati vistu mancu passari!
Ntoni sapeva la verità. L’aveva saputa proprio da Peppi u Rocchisanu ch’era diventato il suocero del figlio, ma si guardava bene dallo sbugiardare Giginu Coraisima per evitare di farselo nemico, che in fondo, da consigliere comunale gli poteva sempre servire, e poi perchè non gli dispiaceva vedere tutti quei sapientoni che si piegavano di fronte alla logica del suo amico.
Ed era quello il momento più bello della domenica, quando, nel ritornare insieme verso casa, potevano continuare a sfottere sulla cazzonaggine dei loro interlocutori; perchè era così che Ntoni Pitittu e Giginu Coraisima riuscivano a riempirsi la pancia anche di domenica.

I spruvviduti! Coraisima e Pitittu

Io non ho paura di nessuno!

Il rispetto, l’educazione, in alcuni casi anche la riconoscenza per i buoni trattamenti ricevuti, sono un cosa diversa dalla sottomissione.
Se mi tolgo il cappello davanti ai signori, è perché sono una persona educata, non certo perché ho paura di loro o, ancora peggio perché mi voglio arruffianare. La mia storia, la mia condizione, e la fame che mi porto eternamente addosso ne sono la dimostrazione più evidente.
Così gridava Coraisima in faccia a quel gruppo di “mancia pani a tradimiantu” che lo attorniavano in piazza, di fronte  alla bottega del popolo di Pirniciuni.
Non volevano capire, o forse non potevano farlo per la grande ignoranza che li caratterizzava, che il suo scappellamento verso i “Don” era diverso da quello di tutti loro. La rivoluzione che lui aveva fatto, diversamente da loro che non sapevano neanche cosa fosse, lo metteva nei confronti dei signori  su un piano diverso, quasi allo stesso livello, e quindi non aveva bisogno di prostrarsi per garantirsi la sopravvivenza. A maidizzioni i da Zzingara
Cicciu u chjiuavu non si faceva intimorire dal tono aggressivo della sua voce. Continuava a ripetere quella domanda che sin dall’inizio aveva innescato la discussione:
– Se la tua è soltanto educazione, allora com’è che loro manco ti cacano quando tu ti togli il cappello in segno di saluto?
– E soprattutto, com’è che loro non rispondono al saluto togliendosi il cappello come invece fanno quando incontrano un loro pari?
Ma la domanda che mandava in bestia Coraisima era sempre quella riguardante il suo atteggiamento in consiglio comunale dove, a detta di tutti, il suo atteggiamento deferente si manifestava ogni qual volta si accartocciava su stesso mangiandosi le parole di fronte alle occhiate assassine del Sindaco e degli Assessori.
Mai una volta che avesse osato contraddirli, e mai una volta che avesse solo minimamente accennato ad argomenti che potevano infastidire Don Ciccio il Sindaco.
Se non era sottomissione questa!
Lui rispondeva che i contrasti all’interno dell’Amministrazione comunale non erano panni da lavare in pubblico e che nelle sedi dovute aveva sempre fatto sentire le sue ragioni; se in consiglio preferiva non pronunciarsi era perché le ragioni superiori del partito gli imponevano una condotta rivolta a mediare piuttosto che a sfasciare.
Ma loro, che di politica non capivano niente, non potevano afferrare le sottigliezze dell’arte della mediazione che, invece, interpretavano come sottomissione.
E poi, loro erano buoni a far questi discorsi in piazza, dove potevano aprire la bocca su tutto senza il peso della responsabilità; che venissero invece in sezione a portare il loro contributo per assaggiare almeno in parte quanto fosse amaro il sale della democrazia.
Quando si era al tempo della rivoluzione loro erano stati a guardare, attenti a pararsi il culo tenendolo ben appoggiato “aru siattu i da gghjiazza”; ora che era il tempo di costruire loro passavano il tempo a demolire ciò che lui, faticosamente, cercava di portare a casa per tutti loro.
Ma a Cicciu chiuavu non l’avevano chiamato chiodo per niente: era un chiodo veramente e si divertiva a inchiodare Coraisima con domande che si conficcavano nel suo corpo e nella sua anima tentando di ridurlo come Cristo in croce.
Coraisima però, non aveva la pazienza di nostro Signore e non possedeva nemmeno un briciolo del dono del perdono e reagiva con improperi e divagazioni sulle origini dei suoi interlocutori che avevano l’effetto di acuire l’astio nei suoi confronti allontanando il giudizio sul suo operato.
Come in altre occasioni, la discussione finiva anche quella mattina con Pitittu che se lo prendeva sottobraccio e lo allontanava dal gruppo con la scusa che era tardi e a casa ormai lo aspettavano per mangiare.
Nel tragitto dalla casa del popolo alla Lamia il discorso tra i due era solo un continuo florilegio di epiteti affibbiati ad ognuno degli interlocutori lasciati in piazza:
– Come si permetteva quello sciancato di Peppi u Pitusu a rimproverarlo dopo che proprio lui gli aveva fatto concedere i buoni dell’ECA senza i quali rischiava di morire di fame con tutta la famiglia? E quell’altro scatriatu di Carminu Bardarellu che diventava cacagghjiu persino davanti alla moglie? Per non parlare di Linardu u pecuraru che lo sapevano tutti che era “a matina ca sì e ra sira can nò”!
Nel passare sotto la lamia, sulla porta del magazzino, Don pasquale fumava il suo toscano con l’aria di chi vive in beatitudine e non si cura punto delle faccende terrene, per cui non ritiene necessario rispondere nemmeno con un cenno al saluto dei due che è già tre volte che si tolgono il cappello.
Per Coraisima e Pitittu non è un problema, nonostante la discussione tenuta in piazza pochi istanti prima.
Anzi, meglio! Se si fosse accorto di loro era anche il caso che gli chiedesse di portare la legna di sopra o magari di ripulirgli il cestone delle granaglie, proprio adesso che dovevano andare a mangiare e con gli abiti della festa. Tanto i signori mangiano tardi e non capiscono le esigenze di orario dei morti di fame.
Contenti di essersi scampitato un servizio non pagato ma “obbligatorio”, si affrettano a girare “u spuntuni i Mpurtunatu” per considerarsi in salvo.
Ma Pitittu ha un dubbio che lo attanaglia ormai da parecchio tempo e una volta passata l’ultima porta laterale della chiesa si ferma e lo espone al suo compare:
– Cumpà, è da parecchio tempo che mi faccio una domanda alla quale non ho saputo dare fino ad ora una risposta precisa. Tu che hai fatto la rivoluzione sicuramente saprai risolvere questo problema. Quando passiamo sotto la Lamia e incontriamo Don Pasquale, ci togliamo il cappello insegno di saluto, mentre quando passiamo davanti al portone della chiesa dove sta nostro Signore non facciamo neanche un segno di rispetto. Io non sono un cattolico praticante, vado a messa solo a Pasqua e Natale perché mi costringe mia moglie, ma mi sembra una cosa storta che dobbiamo scappellarci davanti a Don Pasquale e possiamo fregarcene di nostro Signore. La rivoluzione che cosa dice in proposito?
– Ntò! A rivoluzioni, in proposito non si esprime, ma io una spiegazione potrei dartela lo stesso. Don Pasquali, che sembra non accorgersi neanche del nostro scappella mento, se non ci vede togliere il cappello scende gli scalini e ci rompe le corna. Nostro Signore, che per noi è finito in croce, invece, ci compatisce e ci perdona. E del resto, non è forse vero che “ari spruvviduti cci pensa Ddia”?