U scaluni

Il rito è sempre lo stesso: Uno, due, massimo tre persone comprano il giornale e si siedono “aru scaluni”. Danno un’occhiata alla prima pagina. Rispondono immancabilmente con l’invito ad andarselo a comprare alle richieste di lettura a scrocco formulate sulla base della motivazione relativa ad una sola pagina da vedere. E’ soltanto un modo per iniziare il rito della discussione mattutina su tutti gli argomenti di più stretta attualità non sulla base dei titoli della prima pagina, del tutto ininfluenti alla celebrazione del rito, ma sulla base della frase più o meno utile allo scatenarsi della polemica. Non sono invece ininfluenti i protagonisti del rito. A seconda dei personaggi presenti, la polemica sarà indirizzata verso lo sport,(quasi sempre il pallone) o la politica, o la cronaca locale. A seconda dell’argomento il gruppo dei partecipanti può essere più o meno numeroso e piuttosto eterogeneo. Lo sport vede la partecipazione di grandi numeri e sfoggio di competenze ad alto livello: il numero di allenatori, di direttori tecnici e osservatori speciali di San Mauro supera in percentuale quello di qualsiasi altro paese d’Italia. La politica è quella ce vede l’itervento preminente dei teorici e dei leader con corollario di pubblico più o meno numeroso ma scarsamente partecipativo se non attraverso cenni di assenso o di diniego più o meno evidenti. La politica locale è quella che presenta la partecipazione più eterogenea e meno sistematica essendo basata, generalmente, su critiche e invettive contro l’amministrazione e sulla mancata riparazione della tale buca o della tale strada. Come è facile intuire, la buca e la frana essendo alla portata di tutti, diventano l’argomento di accesso di tutti coloro che altrimenti sarebbero esclusi dal rito.

Riassumendo, il rito prevede:

  1. Molti lettori di giornali ma, tassativamente, pochi compratori;
  2. L’argomento di discussione può non scaturire dal giornale ma deve comunque prevederne l’eventuale uso come prova a sostegno. Di conseguenza il rito non può iniziare se almeno uno non ha comprato il giornale;
  3. Il rito è aperto a tutti ma sono tassative le gerarchie riconosciute sulla base di competenze ormai consolidate: lo sport agli sportivi e la politica ai politici. Sono possibili solo alcune eccezioni relativamente ad alcuni riconosciuti tuttologi o per alcuni esperti sportivi che momentaneamente si trovano ad occupare cariche politiche.
  4. Il rito si svolge tassativamente di domenica, nei giorni festivi e nelle giornate di ferragosto. Tutti gli altri giorni sono dedicati ala lettura silenziosa e alla elaborazione teorica del rito successivo.
  5. Il rito può anche iniziare su argomenti di interesse personale, ma deve sempre, obbligatoriamente, sembrare spontaneo.

E’ assolutamente necessaria, e propedeutica a tutta la cerimonia la sussistenza dello “Scaluni” dove a turno si riposeranno i convenuti e partecipanti al rito.

I ficundiani

Mi sono divertito a seguire le mosse di “Turuzzu” mentre, con una perizia frutto di un’abitudine consolidata negli anni, si dedicava a “mundari nu piattu i ficundiani”. Con una videocamera avrei potuto riprendere tutti i movimenti, anche quelli di parti del corpo non direttamente interessate all’azione come le gambe, la testa e i piedi che, come per un riflesso condizionato, partecipavano armonicamente alla “mundatina”. Avrei potuto farlo… ma la fluidità delle immagini in movimento avrebbe relegato in secondo piano quei particolari che ritengo invece fondamentali per comprendere l’arte di “Mundari i ficundiani”.
Certo che se i fichidindia li avete conosciuti solo nelle cassette delle bancarelle di frutta e verdura, belle ripulite dalle spine, e magari anche con una spruzzata di brillantina sopra, allora voi non avete mai avuto la necessità di imparare a sbucciarle con la destrezza che quelle naturali, ricoperte di spine, richiedono. Ma non è soltanto destrezza: questa da sola non basta a garantire alle nostre mani il salvacondotto verso una serata tranquilla, non funestata dalla fastidiosissima sensazione di una o più spine invisibili conficcate nella pelle e nei posti più sensibili.

Chi non ha mai provato le spine di “ficundiana” non riuscirà mai a capire di quale tortura si sta parlando… le ore passate a cercare di individuarle prima, e i tentativi di toglierle senza spezzarle, sono degne delle migliori scene del cinema comico… per coloro che ne sono stati soltanto spettatori. E allora, alla destrezza e all’abitudine, è necessario abbinare dita callose e indurite dalla fatica dei campi, e in assenza di queste, di un robusto paio di guanti che, per quanto duri, non sono garantite dalle case costruttrici contro le spine di fichidindia. Tutto questo, ovviamente, è relativo solo all’operazione di “mundamiantu”, saltando quindi a piè pari l’operazione di raccolta che vi lascio immaginare, non essendo il mio teleobiettivo abbastanza potente dal garantirmi contro le spine volatili. “Turuzzu” le sbuccia per tutta la famiglia, e specialmente per le donne e i bambini. Lo fa con naturalezza, assolve un compito mai imposto da nessuno, ma frutto di una cultura contadina in cui ruoli vengono conquistati prima che assegnati; espressione di un potere di divisione ed assegnazione in un periodo in cui questo prima che un frutto era cibo.

I “ficundiani” che adesso si lasciano marcire sulle “palette”, venivano raccolte ad una una per essere mangiate come pranzo e come cena e per essere conservate “subba u chjiancatu” fino a Natale. E allora le spine diventavano un fastidioso ostacolo verso il piacere. “Turuzzu ndi munda” solo una quantità limitata, tanti quanto bastano per non trasformare il piacere in sofferenza: conosce benissimo le conseguenze di un abuso di questo frutto così succoso e traditore. “U mpittamiantu è in agguato e le urla di dolore dei ragazzi ingordi che ne avevano abusato sono ancora nelle orecchie di coloro che hanno più di cinquant’anni. Le mosse necessarie per “mundarle alla perfezione sono effettivamente meno di 12, sono 5 per la precisione, ma avrei scattato centinaia di fotografie a quelle mani per riuscire a coglierne non la perizia, ma ciò che rappresentano nella memoria di chi a mani come quelle deve tutto; e forse la mia non era soltanto curiosità fotografica ma il pagamento riconoscente di un debito contratto tanto, tanto tempo fa.

Certificato di povertà

Anni 50…. La mamma prende al bambino i pantaloni da mettere per andare a scuola. Sono appena lavati e asciugati, il panno di velluto ha ancora l’antico colore e non sono molto evidenti i segni dell’usura nelle parti più soggette. Il bambino però non sembra contento, non si veste con il consueto entusiasmo, sembra non avere molta voglia di prepararsi per andare a scuola. La mamma si preoccupa che non sia successo qualcosa a scuola il giorno prima e, senza far notare un eccessivo interesse, fa le opportune domande che ricevono risposte altrettanto evasive ma categoriche su un punto: La scuola non c’entra niente.
Le domande continuano, la mamma vuole capire cosa succede al suo bambino e non si accorge di diventare ansiosa. Ansia che si trasmette al bambino e si tramuta in pianto. Ma, finalmente, tra i singhiozzi emerge, timida, la vera ragione dell’imbarazzo del bambino:-

Non li voglio i pantaloni con le “pezze” alle ginocchia! La mamma è incredula e anche un po sollevata dalla rilevazione, aveva pensato a qualcosa di molto più grave che due toppe ai pantaloni: ma i pantaloni avevano già le “pezze” al culo e non hai mai fatto storie per metterli? E i singhiozzi si fanno più forti, liberatori, smozzicati dalle parole:- Si, li mettevo, anche se malvolentieri, sapendo che non ci sono soldi per comprarmene di nuovi. In fondo mi consolavo con il fatto che, al culo, le “pezze”” non le vedevo e mi potevo illudere che fossero nuovi. Ma alle ginocchia no…li le vedo…le mostro al mondo come se fossero il distintivo della nostra povertà ma anche, e soprattutto, uno schiaffo doloroso alle mie precarie illusioni.

La mamma prova a giustificarsi, prova ad abbozzare una spiegazione razionale e compassionevole pur sapendo che lo sforzo sarà inutile:- Ma se non ci metto le “”pezze”” si vede lo strappo alle ginocchia! Questa volta la risposta del bambino è più ferma, più convinto delle proprie ragioni: – se ‘cè uno strappo posso dire che l’ho appena fatto, posso renderlo un disagio momentaneo. Se ci sono le “”pezze”” non ho nemmeno scuse…Sono un morto di fame con le pezze al culo… certificato!