Se ne vanno…

 

Ci sono persone che ti tengono compagnia anche soltanto per pochi minuti riempiti il più delle volte di non sense che nascono da quel modo antico di costruire uno sfottó che si va sempre più perdendo nell’era dei social network. Un dialogo cercato, quasi auspicato nella monotonia dei discorsi pesanti e tristi in tempi che di ” luci i paradisu” ormai ne mostra ben pochi. Un momento di allegra spensieratezza che assume il senso di un sortilegio nel mare dei problemi e delle negatività in cui sembriamo sprofondare sempre di più. Ci sono persone che riescono con una smorfia, un motto, un gesto e magari anche un benevolo benservito a farci spostare verso l’allegria il barometro dello spirito, rappresentanti di un mondo vedeva il bicchiere sempre mezzo pieno piuttosto che il contrario. Il “Signor Macuso”, così avevo imparato a chiamarlo ormai da quando avevo avuto l’ardire di sfotterlo sull’uso del bastone che da un certo punto in poi era stato costretto ad usare. E quando avevo osato affermare che questo era il senso della vecchiaia ormai, lui mi aveva risposto che era soltanto un mezzo per mantenere le distanze dalle ” gienti non “capacitevoli”! Il signor Mancuso è diventato anche il mio soggetto fotografico preferito con quel suo stare al gioco del personaggio che fa finta di non capire il perché di tanto interesse ma che forse lo aveva capito più del fotografo insistente. Centinaia di fotografie sotto la pioggia, al sole dei suoi ritorni dal rito del “Tè mattutino”, alla tappa dell’arco Salerno, prima di affrontare l’ultima tappa in salita sotto la lamia. Poi, negli ultimi tempi le foto più belle: quelle insieme ad Orelia che veniva a sorreggerlo nell’ultima frazione del ritorno a casa e quelle d’oro due seduti alla pachina dietro  la chiesa, sempre spontanei e senza schermaglie di rifiuti/in realtà/assenzi. Mi mancherà il suo burbero modo di congedarmi, la smorfia del suo sorriso che valeva più di qualsiasi altro saluto, il suo volermi bene che non aveva bisogno di parole e che riusciva a concentrare in quei pochi minuti di dialogo che aveva il piacere di dedicarmi.

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U Zzu Rusaru

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Questa volta Gino è soltanto il mio inconsapevole complice di una delle operazioni fotografiche più difficili: fotografare “un zzu Rusaru”. Stava volentieri con me ed era sempre disponibile a rispondere alle mie insaziabile domande… una memoria da elefante e un modo tagliente e secco di raccontare che riuscivo ogni volta a invidiare. Era capace di raccontarmi una persona a con un aggettivo e riusciva a ricrearmi una scena con lo stretto necessario per orizzontarmi….e quando non avevo tempo di fermarmi bastava il suo sorriso e il suo saluto con due dita per supplire alle parole non dette. Seduto da solo al sedile della piazza sembrava allontanare i seccatori soltanto con il viso corrucciato ed era bellissimo vedere quell’inarcarzsi impercettibile delle labra che sfociando in un sorriso appena abbozzato diventavano un invito privilegiato al dialogo. Molte delle notizie circa le lotte contadine degli anni 50 che ho avuto il privilegio di ascoltare dalla viva voce del compianto Ciccio Caruso avevano poi il degno complemento nella vivida memoria “i du zzu Rusaru”. Molti dei fatti che hanno caratterizzato la storia del primo dopoguerra Sammaurese, molto spesso percepiti soltanto a pezzi ammantati di mistero, diventavano nei momenti trascorsi accanto a lui racconti vividi, concisi e precisi. E non che fosse un chiacchierone, tutt’altro, ma era questo che io intendevo per privilegio: le mie domande servivano da detonatore della sua memoria…era come se le considerasse degne di risposta…era questo che mi riempiva di orgoglio e soddisfazione ed era questa mia disposizione che forse me lo rendeva vicino, disponibile meno schivo. Su una cosa non transigeva: dovevo riporre la macchina fotografica, non voleva essere fotografato,. Me lo diceva con la gentilezza di sempre, con il suo solito sorriso, ma con una fermezza della voce che non lasciava illusioni circa le sue intenzioni…è io avrei voluto fargli capire che fotografare il suo volto scavato, i suoi occhi, le sue espressioni sarebbe stato dal punto di vista fotografico quanto di meglio un fotografo potesse avere a disposizione. La sua risposta era: “profissò, u vvi cci ha pijiati, ma a macchina astutatila”….e sorideva. E allora fotografare Gino è stato l’unico modo per non farmi dire di no…anche se, come in altre occasioni, con un “profissò, profissò”, mi faceva intendere che aveva capito.

Un sorriso come regalo

cicciugiuanniemicu

Cicciu, u zzu Micu e ru zzu Giuanni, un trio che si faceva un baffo dei comici che impazzavano sul tubo catodico… una comicità naturale, una capacità istintiva di rispondere ” aru cugghjuniamiantu” che poteva produrre sketch di ore dal nulla. “U siattu i d’ Annina i mastru Maida era il palcoscenico naturale della loro ironia ma anche della loro bonomia che, per le persone che sapevano ascoltare, era anche la parte migliore di loro. E Ciccio, che sa giocare, oltre che ascoltare, riusciva a essere la loro spalla migliore. Tutto questo è solo nella nostra memoria e la fotografia rimane l’unico modo per farlo diventare documento: queste fotografie rappresentano quello che io definisco il legame tra il materiale e l’immaginario del nostro patrimonio culturale.
La foto mi è stata concessa da Ciccio Cosco… che ovviamente ringrazio facendogli presente che, come al solito, io sono già andato!