Esserci sempre

Questa l’ho scattata nella stessa mattinata di dicembre in cui gli avevo fatto i ritratti. Avevamo finito di sfottere sul fatto cha Ciccio Cosco aveva voluto che gli facessi il ritratto con l’ impermeabile nuovo per mandarlo al figlio Gino. Mentre si allontanava ancora col sorriso sulle labbra scuoteva la testa come a dire quanto gli dispiacesse allontanarsi da quel modo di essere più che fa quel luogo. Ricordo che ho continuato a scattare foto nel tentativo di riprendere quel sorriso… senza successo purtroppo. Quando sono tornato a casa ho immediatamente percepito da uno degli scatti che avevo fotografato una mia sensazione più che uno stato reale. Presi dalla spensieratezza del momento non gli avevo chiesto niente del fatto che era stato male e in quell’incedere senza voltarsi mi era sembrato di scorgere tutto il non detto di quel nostro incontro. Ho visto in quel fotogramma più un addio che un arrivederci. Decisi allora che non l’avrei pubblicata tanto era dolorosa quella sensazione che il suo allontanarsi senza voltarsi fosse solo un tentativo di evitare di trasformare il sorriso in tristezza, fosse anche solo la tristezza di non sapere quando quel momento di allegria si sarebbe potuto ripetere. Tutti pensieri che mi attraversarono la mente accompagnati dalla speranza che questa fosse soltanto una mia reazione emotiva e non altro. Adesso, come un urlo liberatorio, riesco a vedere il suo volto sorridente mentre si allontana e questa fotografia acquista il suo senso originario del voler riprendere un attimo di gioia condivisa che vale per tutti i momenti che non ci saranno più. Un altro rettangolo di quella memoria collettiva che ci riporta piacevolmente al momento dell’esserci allontanando da noi la malinconica sensazione dell’esserci stati.

Ciao Cì

C’è una parte scanzonata del mio carattere che mi è venuta fuori, quasi per forza, quando, appena uscito da una fanciullezza timida e impacciata, ho cominciato a frequentare la famiglia Cosco: Mastro Gigino, Mastro Turu, e poi fino a poco tempo fa, Ciccio. L’allegria, la risata, quella sottile ironia, certe volte non proprio sottile e non tanto velata, che mostravano il volto di un mondo che non va preso troppo sul serio per evitare che diventi opprimente invece che vivibile. Marianna era il loro inno e nello stesso tempo il grido di battaglia e risuona nella mia mente ogni volta che la pesantezza si fa sentire. Mi bastava uscire un momento e lo incontravo, Ciccio, insieme all’inseparabile Mastru Giuganni, appena dopo la lamia, aru spuntuni. E giù racconti, aneddoti, canzoni e ricordi rielaborati con la quella teatralità che in lui era innata e che rendeva divertenti anche i fatti più truci. Era teatro puro senza saperlo, e dovevi farti violenza per decidere di ritornare a casa sapendo però che il pomeriggio dopo sarebbe continuato lo “spettacolo”.

Ed è questo in fondo che più mi fa star male: non è la morte che è nella natura delle cose, ma la costatazione che lo “spettacolo” non ci sarà più aru spuntuni e, soprattutto, il non aver saputo prevedere che tutto questo sarebbe finito. Rimane, dolorosa, la sensazione che una parte di quella “ leggerezza” che mi ha accompagnato fin’ora se n’è andata per sempre portandosi dietro tanti altri fatti, storie, canzoni, racconti, sberleffi e tanto, tanto disincanto. Ciao Cí

Se ne vanno…

 

Ci sono persone che ti tengono compagnia anche soltanto per pochi minuti riempiti il più delle volte di non sense che nascono da quel modo antico di costruire uno sfottó che si va sempre più perdendo nell’era dei social network. Un dialogo cercato, quasi auspicato nella monotonia dei discorsi pesanti e tristi in tempi che di ” luci i paradisu” ormai ne mostra ben pochi. Un momento di allegra spensieratezza che assume il senso di un sortilegio nel mare dei problemi e delle negatività in cui sembriamo sprofondare sempre di più. Ci sono persone che riescono con una smorfia, un motto, un gesto e magari anche un benevolo benservito a farci spostare verso l’allegria il barometro dello spirito, rappresentanti di un mondo vedeva il bicchiere sempre mezzo pieno piuttosto che il contrario. Il “Signor Macuso”, così avevo imparato a chiamarlo ormai da quando avevo avuto l’ardire di sfotterlo sull’uso del bastone che da un certo punto in poi era stato costretto ad usare. E quando avevo osato affermare che questo era il senso della vecchiaia ormai, lui mi aveva risposto che era soltanto un mezzo per mantenere le distanze dalle ” gienti non “capacitevoli”! Il signor Mancuso è diventato anche il mio soggetto fotografico preferito con quel suo stare al gioco del personaggio che fa finta di non capire il perché di tanto interesse ma che forse lo aveva capito più del fotografo insistente. Centinaia di fotografie sotto la pioggia, al sole dei suoi ritorni dal rito del “Tè mattutino”, alla tappa dell’arco Salerno, prima di affrontare l’ultima tappa in salita sotto la lamia. Poi, negli ultimi tempi le foto più belle: quelle insieme ad Orelia che veniva a sorreggerlo nell’ultima frazione del ritorno a casa e quelle d’oro due seduti alla pachina dietro  la chiesa, sempre spontanei e senza schermaglie di rifiuti/in realtà/assenzi. Mi mancherà il suo burbero modo di congedarmi, la smorfia del suo sorriso che valeva più di qualsiasi altro saluto, il suo volermi bene che non aveva bisogno di parole e che riusciva a concentrare in quei pochi minuti di dialogo che aveva il piacere di dedicarmi.

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